mercoledì 14 ottobre 2015

risorse e progetti per il Sud

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Risorse e progetti per il Sud nella legge di stabilità, altrimenti l'Italia non riparte

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ORLANDO
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A ridosso della presentazione della Legge di Stabilità, credo sia utile continuare il dibattito che finalmente si è riaperto questa estate intorno al futuro del nostro Mezzogiorno.
Se non cresce il Sud, infatti, è l'Italia che non cresce come potrebbe invece fare: se il Sud non coglie le occasioni, è l'intero paese che è destinato a perderle.
Questa esigenza va evidentemente oltre le buone pratiche e le eccellenze, che è giusto ricordare ma che poco aggiungono a uno scenario macroeconomico e sociale che ci restituisce un'emergenza di cui il Partito democratico ha il dovere di farsi carico.
Ci siamo avvitati per anni sul "di chi è la colpa", se del mancato impegno dei governi centrali o della qualità delle classi dirigenti meridionali (quando si guarda a quest'ultimo fattore non si deve tuttavia trascurare l'impatto del massiccio fenomeno di emigrazione intellettuale che va avanti da circa vent'anni).
La nostra discussione dovrebbe invece concentrarsi tutta sul "che fare", le nostre energie dovrebbero essere tutte indirizzate a rispondere a questa domanda: che fare per favorire la rinascita e il consolidamento di una nuova dinamica di sviluppo al Sud?
Se non discutiamo di questo, ha poco senso anche continuare a dividersi sul tema delle risorse, se siano tante o poche. Una discussione che spesso non si cura dei numeri reali, e sottovaluta il fatto che negli anni del leghismo di governo abbiamo assistito a un costante drenaggio di fondi originariamente destinati alle politiche di sviluppo e di coesione (il saccheggio del Fas). Così come ci si dimentica che le manovre di contenimento dei conti pubblici hanno avuto proprio al Sud un impatto maggiore.
È evidente, peraltro, che la questione del Mezzogiorno sia imprescindibile da quella di una nuova governance economica europea che favorisca l'abbandono delle politiche antisociali di austerità e promuova un nuovo assetto dell'Eurozona in grado di compensare le asimmetrie che colpiscono le periferie.
Ed è altresì evidente che per definire la missione del Sud dobbiamo esplicitare anzitutto quella dell'Italia. Ma questo orizzonte diventa puramente retorico se non lo si riempie di priorità di intervento in settori e progetti di interesse nazionale in cui il Sud può esprimere al meglio le sue vocazioni o che possano attivare un potenziale di sviluppo maggiore, a beneficio di tutto il Paese.
Per questo, va ripresa - io credo - una formula che sembrava diventata impronunciabile negli anni della deregulation: la programmazione dello sviluppo, un tratto identitario della sinistra di governo nel nostro Paese, da questa poi abbandonata e che oggi fa invece la fortuna di grandi Paesi avanzati, emergenti o già emersi.
Oggi serve certo una programmazione nuova, diversa, pensata e progettata fuori dai vincoli del passato, dall'eccesso di centralismo della prima Repubblica, ma anche dal gretto localismo della seconda. Una programmazione che va sviluppata nell'ambito di un dibattito pubblico, aperto e trasparente, un'occasione per far crescere una nuova classe dirigente, meno condizionata dalla contingenza e dal consenso a breve termine e, per questo, in grado di guidare profondi processi di trasformazione sociale ed economica.
Anche così si può mettere al riparo un'intera generazione di amministratori locali non solo dalle pressioni di poteri criminali ma anche dei tantissimi interessi particolari, micro-settoriali e corporativi che si rafforzano proprio nelle aree più colpite dalla crisi.
Gli ambiti e gli scenari in cui intervenire sono ormai chiari da anni e in larga parte condivisi. In primo luogo c'è l'innovazione: il trasferimento di tecnologia che nel Mezzogiorno è necessario non solo per creare il nuovo, ma per rafforzare, consolidare, volgere alla sostenibilità pezzi importanti dell'attuale apparato produttivo.
Abbiamo una costellazione di centri di ricerca a livello centrale e periferico e presso atenei. Si tratta talvolta di eccellenze in grado di produrre spinoff fondamentali per rendere competitive imprese che per dimensione o struttura non sono in grado di innovarsi.
Sarebbe forse giusto pensare a un unico centro di ricerca, in grado di trasferire tecnologie alle imprese, una sorta di nuova Iri della conoscenza. Ma, intanto, sarebbe saggio costruire una forma di coordinamento dei ricercatori degli Enti, delle Università e delle industrie in laboratori comuni per il trasferimento tecnologico, prendendo ad esempio il modello Fraunhofer tedesco.
Da questo punto di vista considero una sfida cruciale ed emblematica per il Mezzogiorno e per il Paese la trasformazione dell'Ilva di Taranto.
A Taranto, infatti, il percorso verso la sostenibilità non è null'altro che un intervento di innovazione dei processi tecnologici. Se chiude Ilva, tutta l'Italia industriale, non solo il Sud, finirà col dipendere da altri competitors. Questo semplice dato dovrebbe far riflettere anche sull'irresponsabile serie di omissioni che hanno consentito che questo strategico polo produttivo divenisse fuori norma dal punto di vista della legislazione sull'ambiente.
Ma proprio la vicenda tarantina dimostra che interventi di questa portata sono, anche solo in astratto, ipotizzabili solo in presenza di una leva pubblica. Nessun soggetto privato, in questo momento storico condizionato dalla profonda finanziarizzazione dell'economia, sarebbe in grado di condurre con successo un percorso verso la sostenibilità di una realtà produttiva così essenziale e, al contempo, così arretrata.
Un secondo scenario di intervento è quello della logistica. Mi riferisco ad esempio a realtà come quella di Gioia Tauro che dovrebbero diventare zone economiche speciali, non in contrapposizione con il Nord, ma per sfruttare meglio, come sistema-Paese, le potenzialità che si sono aperte dopo il raddoppio del Canale di Suez. Il piano della portualità, di recente adottato dal Governo italiano, suggerisce delle azioni in tal senso - ad esempio per gli insediamenti in aree speciali, la differenziazione dei modelli di traffico, gli investimenti nell'ultimo miglio, la sostenibilità ambientale e i greenports - che da subito bisogna cominciare a intraprendere.
Proprio questo campo dimostra, meglio di ogni altro, un assioma di carattere generale. L'Italia può intercettare determinati flussi di merci soltanto se il Mezzogiorno è messo nelle condizioni di farlo. Altrimenti quest'opportunità verra colta dalla Spagna o addirittura, come è avvenuto negli anni scorsi, dai porti del Nord Europa. Con buona pace dei teorici della contrapposizione Nord-Sud.
Al terzo posto tra gli interventi prioritari inserirei la banda larga perché spezzare l'isolamento di tanti luoghi del Sud ha un valore, anche simbolico, molto maggiore rispetto ad altre realtà. Proprio questa parte d'Italia, per la densità del suo patrimonio simbolico ed immateriale ed al contempo per la resistenza all'omologazione culturale di molti suoi luoghi può produrre un ritorno in termini di creatività enorme. Ed anche l'industria turistica e culturale devono poter beneficiare di infrastrutture che mettono luoghi e cose nelle condizioni di una moderna fruibilità, adeguata alla competizione internazionale.
Un impegno che deve andare di pari passo con la grande sfida della rigenerazione urbana: la questione meridionale è in larga misura una questione urbana, a cui dev'essere orientata una nuova stagione che veda le città metropolitane non più come mero adempimento burocratico ma anche come occasione di un rilancio architettonico e di un riutilizzo edilizio che prenda le mosse anche da una legge importante come quella sul consumo del suolo che mi auguro venga presto approvata.
Ancora: il Sud ha una grande vocazione agricola, fatta di mille eccellenze, che devono essere sostenute e messe in condizione di raggiungere i mercati. Con il ministro Martina, abbiamo messo in campo un'iniziativa importante per contrastare il caporalato, un inaccettabile forma di schiavismo e, insieme, una concorrenza sleale illegale che danneggia la parte sana dell'economia meridionale. Ma nella stessa direzione va quanto il governo ha già annunciato, cioè l'abolizione a partire dal prossimo anno dell'Imu e dell'Irap agricola.
Infine, i servizi per il benessere e la cura delle persone. Qui bisognerebbe fare un discorso assai ampio e circostanziato: la salute rappresenta infatti il secondo capitolo, per livelli di spesa, del bilancio. Una politica industriale si fa dunque anche attraverso un impiego intelligente e mirato di queste risorse, istituendo con i tagli agli sprechi fondi per l'innovazione e la sperimentazione, nel campo farmaceutico, elettromedicale e dell'health literacy. Ciò vale particolarmente nel Mezzogiorno, ricco proprietario dell'unico prodotto non delocalizzabile e interamente made in Italy che è proprio la salute, il benessere. Ma per riuscirci, dobbiamo uscire dall'oleografica immagine del buon clima e dell'ottima qualità della vita, dietro la quale permangono purtroppo servizi al cittadino drammaticamente arretrati.
Questi sono alcuni elementi di una visione di un Sud che da luogo di "fuga" diventi luogo di attrazione; e non solo di turisti per poche settimane l'anno.
Un Sud che attragga stabilmente capitali, persone, energie, in una stagione di "modernizzazione attiva", che liberi alcune sue realtà importanti da vizi antichi e dal ricatto delle mafie; le quali finiscono col rafforzarsi proprio in una spirale di arretramento economico e sociale da cui il Mezzogiorno deve essere tratto fuori. Ma anche per questo tema va riconsiderato l'approccio. La sicurezza e la legalità sono anche il frutto di processi di sviluppo virtuosi, di condizioni di vita e di lavoro in grado di sostenere un processo di liberazione dal giogo criminale.
Un salto di qualità nello sviluppo, nell'innovazione sia di processo che di prodotto è anche un modo per costruire barriere all'infiltrazione dei capitali mafiosi. Non è un caso che le mafie oltre alle attività criminali tendano ad acquisire il controllo di settori economici in cui è modesto il contenuto tecnologico e creativo. Elementi, questi, a cui non si accede esclusivamente sulla base della disponibilità finanziaria.
Il meccanismo delle confische dei patrimoni criminali deve entrare in questo disegno. Non solo in termini di reperimento delle risorse, ma anche come processo di cambiamento dell'allocazione delle stesse. Il Governo ha già agito per eliminare le opacità che hanno segnato in alcune realtà la gestione di queste risorse.
Ora è urgente la trasformazione dell'Agenzia dei beni confiscati all'esame del Parlamento, che assume, anzi, rilevanza strategica per le dimensioni del patrimonio e per il significato del loro corretto impiego. È, questo, uno degli strumenti che deve essere messo a servizio e a presidio di un disegno programmatorio di sviluppo.
Sì, perché parlare di obiettivi e non interrogarsi sugli strumenti è un'altra trappola dialettica nella quale si è caduti in questi anni di confronto sul tema.
Per questo, dobbiamo definire un quadro di responsabilità più chiaro di quello attuale. La sanzione "facile" del definanziamento per le inefficienze amministrative e burocratiche locali (e anche centrali) ricade due volte sui cittadini meridionali, determinando un circolo vizioso. I cittadini di realtà depresse pagano infatti pegno per l'incapacità di amministratori che sono talvolta l'espressione del sottosviluppo.
Anche in questo caso, le prediche sulla qualità delle classi dirigenti e il rinvio alla sanzione politica lasciano il tempo che trovano. E soprattutto non tengono conto del fatto che nel quadro globale le occasioni perdute dal Sud non favoriscono il Nord. Pregiudicano, invece, tutto il Paese.
Servono, per questo, poteri sostitutivi di cui lo Stato si assuma la responsabilità con i suoi bracci operativi, affermando la capacità amministrativa che vuole promuovere.
Occorrono indirizzi di sviluppo e coesione per le grandi aziende a partecipazione pubblica. In questo senso, il nuovo ruolo della Cassa depositi e prestiti sarà fondamentale se saprà essere un adeguato supporto a un disegno di politica industriale oltre a restare un fondamentale strumento per reperire nuovi capitali al servizio delle imprese.
In tutto questo sono convinto che a livello centrale occorra istituire una sorta di "delivery unit", un presidio che cioè agisca in raccordo con l'Agenzia per la coesione e che sappia parlare insieme la lingua dell'Europa e i dialetti meridionali. Visione e strumenti, insomma, di questo c'è bisogno. E subito. E poi uomini. In attesa di sciogliere la disputa per decidere chi ha sbagliato in passato, reclutiamo energia per la sfida del presente. Senza scomodare "i cento uomini di ferro", l'abusata formula di Guido Dorso, il Sud oggi ha bisogno delle sue energie migliori.
In questa direzione si muova intanto, io credo, la volontà del Governo di istituire una sorta di "mini cabina di regia" interministeriale per monitorare e migliorare alcuni pubblici servizi di base come sanità, scuola, giustizia.
È una sfida gigantesca quella che ci attende. Una sfida che ovviamente riguarda anche il piano politico e dunque tocca il Partito democratico nel Mezzogiorno, la sua funzione di mobilitazione degli interessi collettivi, al di là del ruolo spesso ipertrofico delle singole personalità.
Torniamo dunque al punto di partenza. Se il Sud non ce la fa l'Italia non riparte come potrebbe fare. Non è un problema solo dei meridionali. Non possiamo attendere palingenesi improbabili né invocare angeli vendicatori. Con le risorse, le esperienze ma anche con le contraddizioni e i limiti che abbiamo di fronte dobbiamo fare la fatica di costruire una politica che sappia guardare oltre le prossime scadenze elettorali e con continuità lavorare perché il Sud possa diventare quello che rappresenta sul mappamondo: il centro del Mediterraneo.

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