giovedì 8 ottobre 2015

vogliamo il reddito di inclusione sociale

Se il Pd promuoverà il reddito d'inclusione sociale diventerà il vero Partito della Nazione

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I dati Istat sulla povertà in Italia ci dicono che le persone in condizione di povertà assoluta sono passate dal milione e 800 mila del 2007 ai 4 milioni e 100 mila del 2014. Nello stesso periodo i fondi nazionali per le politiche sociali sono stati più che dimezzati, passando da 3 miliardi e 169 milioni a 1 miliardo e 233 milioni.
Una sequenza scandita dai governi Berlusconi, Monti e Letta, ma soprattutto dall'ingerenza della Troika e dal dogma dell'austerità. Mentre la povertà è aumentata, investendo settori della società che ne erano esclusi, si è ridotta la nostra capacità di farcene carico. La nuova povertà si spande in modo trasversale. Colpisce i giovani e gli anziani, il Nord e il Sud, chi non ha mai avuto un lavoro, chi lo ha perso o chi addirittura lo ha. Quando sentiamo parlare di ''working poors'' dobbiamo immaginare famiglie con uno, due figli, che vivono anche al centro nord e in cui sono presenti lavoratori.
Povera è una famiglia che non è in grado di assicurarsi alimenti, vestiti, casa e spese mediche per condurre una vita minimamente accettabile. Questo volto nuovo della povertà, presente ora anche in Italia, nei decenni scorsi ha caratterizzato altri paesi europei (vedi Inghilterra). Chi ha decretato la fine dello ''stato sociale'' cedendo alle lusinghe di una profonda innovazione, non ha messo in conto l'emersione di nuove figure, figlie dell'abbandono e della cattiva redistribuzione.
Quanto all'Italia, recessione globale, allarme sul debito pubblico e austerità sono sopraggiunte simultaneamente. Hanno scatenato una pesante iniezione di disuguaglianza. Secondo alcuni questa ''normalizzazione'' ci starebbe allineando al resto d'Europa conducendoci gradualmente sulla via del risanamento. Dal mio punto di vista invece questa frattura sta segnando la fine del modello di welfare che ha plasmato l'Italia del dopoguerra, con tratti unici di mobilità, redistribuzione e inclusione sociale.
In Europa però solo la Grecia e l'Italia non hanno ancora un programma di contrasto alla povertà. Le responsabilità di questo declino sono a mio parere diffuse. Appartengono all'élites e alle forze politiche che hanno governato l'Italia in questi anni. Rispetto a questa frattura si pone un ''prima'' e un ''dopo''.
È sul versante del ''dopo'' che destra e sinistra dovranno tracciare i loro profili, le loro strategie. La destra intanto pare incarnare lo spirito dei tempi. C'è una scuola monetarista che anche in Italia teorizza l'uscita dalla recessione con tagli pesantissimi alla spesa pubblica, ai trasporti locali e ai servizi, con l'aumento delle tariffe e con la depressione della domanda interna. Secondo questa destra accademica l'export dovrebbe bastare a compensare questi tagli.
Questa destra, che ha dimenticato del tutto la lezione di Keynes, non vede e non vuol vedere che i mancati investimenti, i tagli alla spesa e l'indebolimento dei consumi interni altro non sono che distruzione di ricchezza e distruzione di lavoro. Processi che concorrono all'impoverimento del Paese e a un risanamento senza futuro.
Se la destra ha le idee chiare, la sinistra mostra poco coraggio, troppa timidezza, tali da concedere alla destra e ai populisti una supplenza teorica e politica. Per quanto alcuni continuino a sostenere che il governo Renzi rappresenterebbe il superamento delle classiche distinzioni tra destra e sinistra, guardando alle riforme avviate e ai programmi di politica economica, bisogna riconoscere che esso si pone in sostanziale discontinuità coi governi conservatori e con gli esecutivi tecnici che lo hanno preceduto. Saremmo sciocchi se riducessimo la misura degli 80 euro a un'operazione di consenso. Anzitutto essa è stata una scelta redistributiva.
Sbaglieremmo a interpretare il Jobs Act come una riduzione dei diritti. Esso è stato un primo tentativo per redistribuire tutele e garanzie in un mercato del lavoro prevalentemente invisibile e precario. Queste scelte riformatrici devono essere sostenute e completate. Consolidate nella loro parzialità o debolezza. Una misura analoga agli 80 euro ad esempio dovrebbe riguardare gli incapienti. Il Jobs Act, che grazie alla decontribuzione ha per ora convertito lavoro precario in lavoro garantito, deve completarsi con politiche attive, in grado di creare nuovo lavoro.
Veniamo infine al contrasto alla povertà. In attesa di conoscere i dettagli della legge di stabilità, quello che trapela sembrerebbe un intervento di 1 miliardo di euro per le famiglie più bisognose con minori a carico e 500 milioni per i disoccupati di lunga durata con più di 55 anni. Questi annunci per quanto importanti non coprono la gravità del fenomeno rilevato dall'Istat, cui invece pare maggiormente orientata l'Alleanza contro la Povertà e la proposta di un reddito d'inclusione sociale.
Un programma di protezione scandito in quattro anni, con un graduale e progressivo investimento da parte dello Stato; rivolto a una platea di beneficiari crescente di anno in anno, partendo da chi sta peggio. Secondo i calcoli dell'Alleanza nel primo anno servirebbero 1,7 miliardi di euro. Nel secondo anno 3,5. Nel terzo 5,3. Nel quarto 7,1. Si tratta di un processo progressivo di ricostruzione del potere d'acquisto e della domanda interna che potrebbe arginare e invertire la fine del welfare. Non una soluzione unicamente assistenziale, ma un'autentica politica attiva. Un patto per l'inclusione che impegna da una parte i singoli e le famiglie beneficiarie, dall'altra lo Stato e gli enti locali, chiamati alla presa in carico e alla costruzione di percorsi professionali personalizzati.
In questo scenario Regioni, Centri per l'Impiego e servizi sociali dei Comuni ritroverebbero un protagonismo utile e funzionale. Inoltre, accanto all'azione di governo c'è la missione e la scelta politica. Anzitutto del mio partito. Il Pd che è nato per ricostruire il Paese dovrebbe adottare questo programma, non tanto per esigenze elettorali, ma per rigenerare le basi costituzionali della nostra Repubblica che al primo articolo fissa il nesso tra lavoro e democrazia e al terzo lo qualifica nella rimozione degli "ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese". Se il Pd entrerà nell'Alleanza contro la Povertà, allora diverrà sul serio il partito della Nazione e sarà in grado concretamente di ricostruire, oltre che al "centro" politico, il "centro" della società italiana.

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