domenica 4 ottobre 2015

una storia:Nina Simone

Non sono qui per fare dell’intrattenimento

by maomao comune
Provocatoria, contestatrice, combattiva. Nina Simone aveva tutti quei tratti di carattere che raramente si perdonano ad una donna. Ha lottato contro i mulini a vento per diventare la prima concertista nera di pianoforte classico, anche se le circostanze poi l'hanno spinta verso un’altra direzione: essere una delle poche donne nel mondo del jazz a emergere non solo come cantante ma anche come arrangiatrice, strumentista, compositrice e attivista. La furia di Nina Simone era imprevedibile ma non capricciosa. Lontana dal riflettere le velleità di una diva, nasceva da radici molto profonde. Al suo debutto come pianista classica, a dieci anni, si rifiutò di iniziare a suonare fino a che alla sua famiglia non fu concesso di occupare di nuovo i posti in prima fila che aveva dovuto lasciare in quanto composta di gente dalla pelle nera. Con una smorfia di disprezzo, trasformò “My Way” in un inno femminista e alterò “Revolution” fino a fare a pezzi il messaggio reazionario di John Lennon
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Nina Simone, Foto tratta da fromtheothersideofthemirror
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di Carlos Bouza*
Cannes, 1983. Una tipica serata con Nina Simone. L’artista attraversa il palco e si siede davanti al suo piano Steinway, mentre inizia a bere piccoli sorsi da una bottiglia di bourbon. Non ha ancora suonato una nota quando all’improvviso si gira  verso il pubblico e qualcosa la fa saltare come una molla: “Andate al diavolo, voi che indossate smoking e gioielli! Non sono venuta a cantare per questi idioti vestiti da gala!”. Quella sera Nina non ha nessun problema: si tratta di una messinscena da anni abituale. E’ il suo modo di avvertire che quando canta “Mississippi Goddam”, la sua feroce risposta agli assassinii razziali nel sud degli Stati Uniti, o quando si immerge nell’emozionante cerimonia vudù “I put a spell on you”, lo fa fuori dai confini del banale intrattenimento.
A Cannes erano stati avvertiti: un episodio simile era successo sei anni prima, nella stessa città, davanti ad un pubblico molto simile. “ Non sarò mai la vostra pagliaccia. Mi sono allenata per fare questo mestiere tra le sei e le quattordici ore al giorno. Ho studiato e imparato a forza di pratica. Non sto qui per farvi divertire”. La metà del pubblico fischia ed esige che canti, l’altra metà non riesce quasi a reagire. “Non sono Louis Armstrong, non sono qui per farvi sorridere!”. La furia di Nina Simone era imprevedibile, ma non capricciosa. Lontana dal riflettere le velleità di una diva, nasceva da radici molto profonde. Tanto che, anche a cinquant’anni, la sua mente continuava a rimanere inchiodata a Tryon, Carolina del Nord, dove da bambina bruciava di rancore per tutte le limitazioni che le imponeva il colore della pelle.
Cinquant'anni prima era semplicemente Eunice Kathleen Waymon, la bimba entusiasta che stupiva il padre, un meticcio colpito dalla crisi del '29, interpretando all’organo suoi inni religiosi preferiti. L’economia familiare, sostenuta a stento dal reddito della madre, che lavorava come domestica, non permetteva di pagare l’educazione musicale di Eunice, ma la bambina non si arrese: imparava basandosi sull'entusiasmo e l'intuizione, destreggiandosi da autodidatta tra la tradizione spirituale del gospel e la mondanità del blues rurale. Molto presto, però, l’irruzione di una figura benefattrice contribuì ad allargare le attitudini e gli interessi di Eunice: usando i suoi risparmi, la donna per cui la madre lavorava introdusse la piccola nel sofisticato e monacale mondo di Miss Mazzy, la professoressa inglese che le inculcò l’amore per Bach e la musica classica europea.
Fu una tappa di rivelazioni agrodolci. Assieme alla scoperta di Bach, che la stimolò notevolmente nell’apprendere nuove e complesse esplorazioni musicali, Eunice conobbe il disonore di avere la pelle nera. Il primo segnale del fatto che qualcosa non andava bene venne fuori una mattina, mentre andava alla lezione quotidiana di piano: dopo aver comprato un panino in un bar, il proprietario la invitò a mangiarlo fuori dal locale, lontana dalla clientela bianca. Non fu l’ultimo, né il peggiore dei segnali. Quando Eunice compì dieci anni, era tutto pronto per il suo debutto come pianista classica nella biblioteca di Tryon. Fu il pomeriggio in cui suo padre e sua madre furono obbligati a cedere i loro posti in prima fila ad un gruppo di spettatori/trici bianchi/e. E fu anche il pomeriggio in cuiEunice scoprì il suo potere come artista, quando si rifiutò di iniziare a suonare finchè la sua famiglia non avesse rioccupato i posti assegnati. Oltretutto, l’episodio la spinse alla futura immersione nel Movimento per i Diritti Civili, e al suo impegno per la lotta per la libertà e le rivendicazioni del popolo afroamericano negli Stati Uniti.
Si stava forgiando un’artista battagliera e incorruttibile, che oltretutto continuava a formarsi nella solitudine di una atleta di fondo. Disposta a volare da sola, allontanandosi dalla generosità altrui, Eunice divenne insegnante privata di pianoforte classico e pianista accompagnatrice nelle lezioni di canto, mentre sognava di diventare la prima concertista nera di pianoforte classico. Alla fine, consegnò le sue speranze a un’importante borsa di studio, con l’intenzione di entrare nel prestigioso conservatorio Curtis, a Philadelphia. La sua richiesta fu respinta, con motivazioni che da tutte le biografie vengono definite come un altro episodio di razzismo. Eunice finì per indurirsi ancora, e la sua rabbia raddoppiò: “Da una simile frustrazione non si torna indietro. Avevo dedicato a quel sogno la mia infanzia in cambio di niente. Fu come se tutta la famiglia, i professori e anche la mia comunità mi avessero mentito per tutti quegli anni, incoraggiando un sogno che sapevano essere irrealizzabile”. Eunice dovette accontentarsi di suonare tutte le sere in un localaccio irlandese di Atlantic City, New Jersey, con un accordo non negoziabile: non poteva limitarsi a suonare il piano. Se non cantava non guadagnava.Fu nella sua prima notte davanti ad un pubblico nottambulo che Eunice Wayon si trasformò in Nina Simone.
Nina era il nomignolo affettuoso con cui la chiamava il suo fidanzato di allora. Simone, il suo omaggio all’attrice francese Simone Signoret. Una nuova identità per mitigare la vergogna che provava nel suonare musica diabolica, di fronte ad un pubblico da taverna, mentre le sue aspettative continuavano ad essere ancorate alla musica da camera. In questo modo però Nina reinventò il suo stile, assorbì tutte le sonorità possibili (jazz, soul, pop, classiche) e finì per diventare lei stessa un genere a sé. Il trambusto di Atlantic City fu importante per la sua carriera come il silenzioso mondo della clausura di Miss Mazzy. In quel locale, grazie alle interminabili notti, imparò ad inventare sempre nuovi trucchi scenici per attirare una clientela esigente e con poca capacità di sorpresa. Le sue competenze musicali si moltiplicarono: Nina iniziò a passare senza pregiudizi da Bach a Duke Ellington, e da Ellington a Gershwin, spesso nello stesso fraseggio di piano. Incorporò nel suo repertorio i successi pop dell’epoca, arricchiti con trucchi che imparava dalla Chançon francese o dal cabaret. Si fece le ossa nell’arte dell’improvvisazione, cominciò a scrivere musica sua e lavorò duramente per dimostrare che la sua arte era destinata a superare le frontiere. Nel 1957 registrò il suo primo disco. Due anni più tardi, era passata dal suonare in club pieni di segatura a trionfare nella Carnegie Hall. I suoi genitori ricevettero una buona ed una cattiva notizia: “Sono dove avete sempre sognato di vedermi arrivare, ma non sto suonando esattamente Bach”.
Man mano che prendeva confidenza col suo status di stella del jazz, e insieme che la sua musica guadagnava in spessore ed ampiezza cromatica, la personalità contraddittoria e volubile di Nina cominciò ad esplodere nei posti più insospettabili. Era capace di scrivere le canzoni più scarne sull’abbandono delle donne di colore negli USA (“Four Women”), ma si imbestialiva quando qualcuno comparava la potenza delle sue interpretazioni con quelle di una “drogata” come Billie Holiday: preferiva prendere le distanze dalle eroine del jazz dalla biografia turbolenta, sostenendo che la sua arte apparteneva alla sfera della musica classica negra.
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Si mostrava solidale con le rivendicazioni del movimento per i Diritti Civili, ma condannava i suoi musicisti a lavorare per paghe misere.
Imparò a non scendere a patti con nessun@: disprezzava la gente bianca, nonostante nel suo repertorio abbondassero i temi che venivano dalla cultura pop bianca del momento. Ciò nonostante, quando ascoltiamo le sue versioni, non è difficile immaginarla esprimere una certa arroganza, cosciente del fatto che potrebbe spingere qualsiasi di quelle canzoni verso nuovi territori. Succede con ”My Way”, dove Nina trotterella tra le congas, trasformando l’imperterrita lettura di Frank Sinatra in una smorfia di disprezzo di fronte a un Nordamerica irrespirabile, in un inno femminista. O con “Revolution”, la sua coscenziosa ricostruzione dell’omonimo tema dei Beatles, dove altera il testo originale fino a fare a pezzi il messaggio reazionario di John Lennon.
Alla fine degli anni Sessanta, sedotta dal programma politico delle Pantere Nere, Simone era più interessata alla canzone come motore del cambio sociale che allo sfruttamento di clichè romantici, ed in questo clima registrò alcune delle sue opere più incendiarie: è il caso dell’album “Nuff Said!” (Adesso basta!), sorvolato dal cadavere ancora caldo di Martin Luther King; o del tema “To be young, gifted and black” eletto come “inno nazioanle nero” al Congresso per l’Uguaglianza Razziale. Fino a che, nel 1969, Nina decise che gli USA non meritavano più le sue canzoni, e che stava sfiancandosi invano. E allora si allontanò. “Del paese che avevamo sognato di costruire negli anni 60 – dichiarò - resta solo un incubo: Nixon alla Casa Bianca e la rivoluzione nera trasformata in musica da discoteca”.
Perseguitata per motivi fiscali, per aver deciso di non pagare le tasse per protesta contro la guerra in Vietnam, e probabilmente tenuta d’occhio dall’FBI, Nina abbandonò gli Stati Uniti con la ferma decisione di non tornarvi mai più. Girò tutto il mondo in cerca di un luogo dove mettere radici, le sue consegne discografiche si espansero sempre di più, e finì con lo spargere la sua arte in tour interminabili, spesso dominati da un ambiente bellicoso. Fuori dalla scena si era trasformata in un vulcano incontrollabile, capace di aprire il fuoco contro direttori discografici o vicini molesti.Non raggiunse la tranquillità neanche col calore del pubblico, che anzi contribuiva a riaprire ferite mai cicatrizzate. “Non mi sarei mai aspettata di finire a suonare per un pubblico che continuava a parlare e a bere mentre suono il pianoforte. Cosi mi sono detta che, se non vogliono ascoltare, tanto vale che se ne vadano a casa”.
Nonostante le promesse, Nina tornò più volte negli Stati Uniti, la casa che il destino le aveva imposto per nascita, ma non vi rimase mai. Morirà nel 2003 in Carry-le-Rouet, nel suo esilio francese, onorata con un funerale in cui suonò il vecchio successo di un cantante belga: ‘Ne Me Quitte Pas’, di Jacques Brel. Un tema il cui midollo era stato morso proprio da lei in una delle sue interpretazioni più commoventi. Da allora, non sono stati pochi i tentativi di disattivare le sue canzoni. E anche se distorte in mixaggi, inserite in filmacci, spolpate in annunci pubblicitari, continuano a mantenere intatta la loro potenza. Basta ascoltare la sua interpretazione gospel di “My sweet lord”: Nina attraversando la canzone col suo caratteristico tremolo, spremendola con godimento per quasi venti minuti, come se l’originale di George Harrison non fosse mai esistita. Nina esplodendo ovunque, come ha sempre fatto..
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Fonte Pikara Magazine
Traduzione per Comune-info di Nicoletta Salvi
Tratto dal magazine on line Pikara, che edita anche una bellissima rivista cartacea e che ringraziamo. Pikara propone un giornalismo di qualità, con una prospettiva di genere, di cui sono protagoniste persone e storie che raramente appaiono sui media. Di origine basca, tratta tutti i temi sociali e culturali con un punto di vista inclusivo, impegnato, incisivo, piacevole e trasgressivo. http://www.pikaramagazine.com/

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