lunedì 23 febbraio 2015

si lavora e si muore troppo

Bravi da morire

by Citta invisibile
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di Ivano Calaon*
Si lavora troppo oppure troppo poco. E non è solo una questione di tempo e denaro, è anche una questione di significato: il lavoro può significare troppo o troppo poco. Può essere qualcosa a cui de dicarsi con un culto fanatico, una monomania che soffoca ogni a ltro spazio della propria vita oppure un qualcosa di totalmente irrilevante, una dolorosa necessità che impoverisce, svuota e consuma giorno dopo giorno.
In American Sniper (Il cecchino americano) di Clint Eastwood abbiamo una rappresentazione estrema di questi aspetti. Il film racconta la vicenda di Chris Kyle, un soldato dei corpi speciali dell’esercito statunitense, che durante la guerra del golfo stabilì il record di persone uccise da un cecchino: 160 secondo le statistiche ufficiali, 256 secondo la sua autobiografia. Negli Usa il film ha suscitato polemiche roventi tra chi considera Kyle un eroe e chi un killer psicopatico; sicuramente uno dei pregi di questo film è di mostrare il complesso intreccio tra il “lavoro” del  protagonista e le sue vicende private.
Grazie all’appartenenza a una grande organizzazione che premia ed esalta il suo talento, Chris passa da una vita anonima nella grande provincia americana ad un’esistenza dotata di senso e passione. Ma con un prezzo da pagare. Le prime vittime del suo micidiale fucile sono una madre e un bambino che stanno per compiere un attentato suicida contro una pattuglia di soldati. Una scena che ci porta senza mediazioni nel dramma e non senso della guerra e che può essere letta anche come una rappresentazione del “lavoro” che occorre fare su di se per appartenere in maniera esclusiva a un’organizzazione che garantisce identità e fama: occorre uccidere le proprie parti femminili e bambine, vale a dire le funzioni della mente che stanno alla base delle dimensioni relazionali e affettive. Un cecchino è una persona che passa ore, giorni immobile ad aspettare le proprie vittime, in un isolamento autistico e onnipotente, uccide dall’alto come un fulmine divino, vede senza essere visto. In diversi momenti Chris parla al telefono satellitare con la moglie incinta a casa mentre è impegnato nella sua routine di morte, esattamente come potrebbe fare un impiegato annoiato dal caricamento di fatture davanti a un computer. Eastwood introduce un doppio: Kyle uccide i terroristi, Mustafa, il cecchino iracheno, uccide i suoi nemici, sono le due facce di una stessa medaglia dal valore opposto. Anche Mustafa ha una moglie, una casa da cui esce imbracciando il fucile come se fosse il pc portatile o la cassetta de gli attrezzi.
Diventare qualcuno
È la banalità del male di cui parla Hanna Arendt[1] e in questo senso Kyle forse non è né un eroe né un folle psicopatico bensì, come il nazista Eichmann descritto dalla filosofa tedesca naturalizzata statunitense, un uomo mediocre che grazie a una competenza, una singola competenza, può diventare “qualcuno”. O almeno illudersi di esserlo. La sua specializzazione è talmente spinta che quando decide di “scendere sul campo”, di sporcarsi le mani nel le attività di pattugliamento edificio per edificio e di dare la caccia a un pericoloso criminale di guerra, provoca una tragedia devastante. Un cecchino ha per sua natura una visione ristretta e monoculare, non è in grado di cogliere l’ampiezza e la profondità dell’orizzonte che gli sta davanti, anzi deve escluderlo dal suo campopercettivo, pena l’inefficacia della sua azione. Deve inquadrare ed abbattere i suoitarget , la parola inglese che significa sia bersaglio sia obiettivo (di vendi ta, produttivo, ecc.).
In questo senso la figura del cecchino è una metafora efficace per rappresentare quella che potremmo definire un’identità istituzionalizzata. Istituzionalizzazione è una parola che viene a volte utilizzato per indicare l’inserimento di una persona fragile (anziani, persone con problemi di tossicopidendenza, psicotici) in una struttura residenziale “totale”, un luogo in cui vengono accuditi (e sorvegliati) a tempo pieno. Ha anche una connotazione negativa perché indica il processo attraverso cui queste persone perdono la propria soggettività, atrofizzano la proprie capacità e risorse, fino a diventare totalmente e patologica mente dipendenti dall’istituzione in cui sono reclusi. È una sorta di effetto iatrogeno, una malattia che nasce da modalità di cura improntate all’assistenzialismo e alla scissione tra “sani” e “malati”. Il prototipo è rappresentato dai manicomi prima della legge 180, in cui l’uso sistematico dell’elettrochoc, delle cinghie per legare i pazienti a letto, delle reclusione in “camere” di isolamento finiva per cronicizzare e peggiorare la sofferenza di persone che partivano da una situazione svantaggiata. La chiusura dei manicomi per molte persone che vi hanno trascorso decenni della loro vita è stata un dramma, in quanto avevano per l’appunto sviluppa to un’identità istituzionalizzata, non erano letteralmente in grado di vivere fuori da quel mondo rigido e feroce. Da un punto di vista sociologico, anche il matrimonio, le aziende, le religioni, le professioni e gli eserciti sono istituzioni che possono richiedere appartenenze più o meno rigide.
In genere quanto più forte è l’istituzione tanto più rigido e monodimensionale è il ruolo che occorre svolgere per farne parte. Per la persona questo vuol dire entrare in una modalità esistenziale basata sullo sviluppo ipertrofico di una e una sola dimensione, di una competenza, di un aspetto identitario particolare a discapito di tutti gli altri. Un po’ come la pratica agonistica ed esasperate di uno sport che finisce per sviluppare solo alcuni gruppi muscolari e finisce per creare un fisico “mostruoso” o vere e propri e patologie. Non si tratta solo del manager rampante di una multinazionale o dell’avvocato di successo, sono
modalità che possono essere sviluppate anche dell’educatore di una comunità per disabili, dal muratore abituato ad ammazzarsi di lavoro, dalla “supermamma” che ha deciso di stare a casa per seguire i figli, dall’artista che vive unicamente in funzione delle sue opere. Non ha che fare con il contenuto ma con dinamiche emotive e relazionali di tipo monomaniacali: esiste una sola cosa per cui valga la pena vivere, una sorta di folle innamoramento di un sole talmente splendido da oscurare tutto il resto. In questa prospettiva il cecchino del film di Eastwood è un eroe contemporaneo perché si sacrifica non tanto, come avveniva un tempo, sull’altare del dovere o dell’ideologia ma su quello della realizzazione personale e del piacere. Il piacere della competenza nel proprio mestiere, del saper fare qualcosa e saperlo fare talmente bene da essere mortali e mortiferi. Come un giocatore d’azzardo patologico entra nella ruolette russa della guerra alzando sempre di più la posta, con la differenza che invece di giocare il proprio denarosperpera la propria umanità, la propria capacità di sentire e comunicare autenticamente con gli altri e con i propri cari. Non va in guerra perché deve ma perché non può più farne a meno, perché fuori da quel contesto non esiste, il suo infallibile fucile non serve a niente in casa, a una festa con i bambini o accanto al letto di un compagno d’armi che sta morendo.
Le due pazzie
Non stiamo parlando solo della guerra in Iraq. Spesso chi è molto bravo nel proprio lavoro è mortalmente noioso sul piano umano, ha dedicato talmente tanto tempo ed energie allo sviluppo del proprio talento o progetto da risultare letale e da potersi sentire vivo solo con la presenza di fan adoranti attorno a sé.
È un modo folle di vivere ma di una follia che potremmo definire “ego e socio sintonica”: la persona e chi gli sta attorno non lo percepiscono come un problema, anzi, lo alimentano attivamente. Lo psicanalista inglese Donald Winnicott sottolinea come vi siano due poli della pazzia: da una parte chi vive la realtà in maniera troppo soggettiva, lasciando sconfinare l’onirico nello stato di veglia, con deliri e allucinazioni e dall’altra chi sta così attaccato a ciò che crede come “oggettivo” da non essere in contatto con il proprio mondo soggettivo e con la possibilità di utilizzarlo per intervenire creativamente nella realtà. “Questi due gruppi di persone vengono in terapia perché in un caso non vogliono passare la loro esistenza irrevocabilmente tagliate fuori dal contatto con i fatti della vita, e nell’altro perché si sentono estraniate dal sogno.... È l’appercezione creativa, più di ogni altra cosa che fa sì che l’individuo abbia l’impressione che la vita valga la pena di essere vissuta. In contrasto con ciò vi è un tipo di rapporto con la realtà esterna che è di compiacenza, per cui il mondo ed i suoi dettagli vengono riconosciuti solamente come qualcosa in cui ci si deve inserire o che richiede adattamento [2]".
Diversi autori di cultura psicodinamica hanno trattato questo argomento: oltre a Winnicott che parla di Falso Sé e adattamento su basi compiacenti, possiamo ricordare Chistopher Bollas[3] e l’idea normopatia e CarlGustav Jung[4] quando parla di contrapposizione tra Persona e Ombra. Uno sviluppo recente è rappresentato dal concetto di “Patologia ad alto funzionamento” prese nte nel filone di ricerca accademica che far riferimento al PDM[5] e al test Swap[6]. È un etichetta diagnostica spiazzante ma efficace per alcuni stili di personalità patologici (per esempio depressivo ad alto funzionamento, antisociale ad alto funzionamento, ecc.) diagnosticabile con strumenti statisticamente validi, che non apre le porte del manicomio ma quelle del successo.
pre
"Voglio lasciare questa merda di posto"
Ma se il successo professionale può essere un gigante costruito su una personalità d’argilla, cosa ha che fare con chi lavora per vivere? In fondo la maggior parte delle persone nel lavoro cerca prima di tutto la possibilità di un’esistenza dignitosa. Gli eserciti sono costituiti per la maggior parte dalla fanteria, dai soldati che rischiano la pelle in prima linea e nei pattugliamenti per strada, non dai cecchini dei corpi di é lite.
Tornando ad American Sniper tuttavia sono proprio i soldati semplici che danno a Kyle il soprannome di “Leggenda”. Nel pericoloso lavoro tra le case di Falluja hanno bisogno di aggraparsi all’idea di essere protetti da una leggenda, da un dio che dall’alto di una specie di Olimpo scagli le sue infallibili saette sui nemici che si nascondono dietro ad ogni angolo e ad ogni porta. Tra questi c’è il fratello che viene incrociato in un aeroporto militare e che di fronte alle parole retoriche del fratello grida disperato: "Voglio lasciare questa merda di posto".
È qualcosa che molte persone dicono del proprio lavoro: in un epoca di precariato a tempo
indeterminato la sensazione è quella di essere soldati che, in ogni momento, possono essere abbattuti da un cecchino, presi in un’imboscata o saltare su una mina. Chi lavora poco e male accumula rabbia e frustrazione anche perché viene confrontato con modelli idealizzati e irraggiungibili: un soldato di fanteria sta a un membro dei corpi speciali come un addetto al call center sta a una rockstar. Al termine delle sue missioni in Iraq, il nostro eroe torna in Texas, dove era cresciuto e si dedica all'assistenza dei veterani di guerra, insegnando loro il tiro di precisione. La leggenda si schianta contro la realtà. Il 2 febbraio 2013 l'ex marine Eddy Routh uccide Chris Kyle nel poligono di tiro di un ranch della contea di Erath. Il più letale cecchino della storia statunitense, che è uscito vivo dall’inferno iracheno, nonostante una taglia nemica da centinaia di migliaia di dollari sulla sua testa, muore per “fuoco amico” in una tranquilla cittadina di provincia mentre “fa del bene”. Una nemesi impressionante che ricorda molto l’uccisione di John Lennon, avvenuta l'8 dicembre 1980 a New York da parte di un suo fan: Mark David Chapman. Dopo averlo ucciso Routh prese il pick-up di Kyle e se ne andò. In una confessione video registrata, l'ex marine spiegò alla polizia che aveva ucciso Kyle perché "sapevo che se non avessi preso la sua anima lui avrebbe preso la mia". Difficile capire cosa o chi avesse preso l’anima di Routh ma forse voleva essere come Kyle, anzi voleva essere Kyle: si impossessa del su o pick-up per impossessarsi della sua anima, del suo talento, del suo successo. Dietro qualsiasi idealizzazione c’è sempre una profonda invidia e distruttività che se non viene riconosciuta può esplodere in maniera devastante. Ecco quindi che anche chi fa un lavoro "normale”, per scelta o necessità, deve confrontarsi con il fantasma di Polifemo, il gigante con un’occhio solo (come i cecchini) che divora tutti i compagni di Ulisse e a cui ci si può sottrarre soltanto “diventando” pecore e dicendo di essere “Nessuno”.
Non esiste istituzione, tecnologia o talento che ci metta al riparo dalla possibilità di generare morte e distruzione, il lavoro che facciamo per vivere è anche e soprattutto un infinito lavoro su di sè per cercare di essere vivi e vitali.

Note
1 Hanna ARENDT – La banalità del male (1963) – Feltrinelli, 2001
2 Donald W. WINNICOTT – Gioco e realtà, 1971 – Armando Editore, 2006.
3 C. S. BOLLAS – Normotic Illness - Bruce L. (Ed), 1989
4 C. JUNG – L’Io e l’Inconscio (1916) – Opere Vol. 11 – Bollati Boringhieri, 1992
5 V. LINGIARDI, F. DEL CORNO – PDM: Manuale Diagnostico Psicodinamico - Raffaello Cortina Editore – 2008
6 D. WESTEN, J. SHENDLER, V. LINGIARDI – La valutazione della personalità con la SWAP-200 – Raffaello Cortina Editore, 2003.

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