sabato 28 febbraio 2015

teatro formativo e società della decrescita

Nel farsi comandare ha trovato la sua nuova libertà

by Citta invisibile
 ABS
di Alessio Pusceddu*, Educazione democratica
Il teatro formativo
La formazione dell’individuo non è un fatto esclusivamente «istituzionale», ciò che distingue un percorso di studio dalle attività extrascolastiche è sostanzialmente l’intenzionalità educativa. Quando si frequenta un corso di studi vi è un preciso proposito di apprendere, mentre se impariamo qualcosa in contesti extrascolastici è, in un certo senso, qualcosa di complementare. Si usa il termine «educazione informale» per indicare tutti i contesti nei quali si genera apprendimento senza che ve ne sia l’intenzionalità (ad esempio nelle attività sportive, lavorative, artistiche ecc.) e può essere intesa come «ogni attività organizzata fuori dal sistema formale ma con “clienti” e docenti individuati secondo obiettivi d’apprendimento ben definiti» (Mariani/Santerini 2002, 112).
Ciò premesso, focalizzeremo la nostra attenzione sul teatro, quale luogo di formazione per l’individuo. Nei secoli, l’arte teatrale si è arricchita ed è andata ben oltre il semplice intrattenimento, si pensi all’antica Grecia, luogo in cui il teatro ha ricoperto il ruolo di strumento educativo per il cittadino o, ancora, ai grandi maestri della storia del teatro, in modo particolare Brecht e Boal, che hanno saputo valorizzare il contesto teatrale oltrepassando la semplice funzione di intrattenimento.
Il dramma pedagogico di Bertold Brecht, ad esempio, è un eccellente esempio storico di «teatro didattico», non a caso venne definito «teatro del sapere». L’autore ipotizza situazioni che necessitano di un cambiamento, in grado di innescare dei processi attivi nello spettatore, il quale si trova dinnanzi a personaggi disonesti che hanno lo scopo di condurlo alla comprensione delle loro caratteristiche negative ed evitarne l’emulazione. Brecht, inoltre, prende le distanze dal teatro «borghese» che non fa pensare lo spettatore ma si limita a farlo divertire, poiché è convinto che il teatro debba svolgere una funzione pedagogica, senza limitarsi ad un divertimento fine a se stesso. Se, precedentemente, Hegel aveva teorizzato il personaggio teatrale come soggetto o oggetto assoluto, Brecht ha ben pensato di tramutarlo in un personaggio che da un lato è oggetto delle forze di produzione ma dall’altro «ha la forza di determinare il pensiero e l’azione, di rendersi soggetto» (A. Vigilante, P. Vittoria 2011, 67).
La pedagogia ha offerto il suo contributo al teatro portando il soggetto a divenire protagonista «attivo» del proprio percorso educativo e consentendogli di evocare il proprio vissuto, all’interno della rappresentazione, così da elaborarlo e procedere verso una dimensione razionale e conoscitiva. La messa in scena diviene, dunque, uno strumento che offre allo spettatore l’opportunità di andare verso una presa di coscienza inerente determinate tematiche sociali, politiche e relazionali.
GAB
La nascita del Teatro Canzone
Esistono due modi di far spettacolo: o vai sul palcoscenico per farti vedere (e quindi affermi te stesso), o ci vai perché cerchi una comunicazione col pubblico. Non dico che con noi in teatro si formi un’appartenenza, ma certo nasce qualcosa che ne fa parte (G. Gaber, da un’intervista di M. Bernardini, 1999).
Il teatro canzone, ideato nel 1970 da Giorgio Gaber e Sandro Luporini, rappresenta un ottimo esempio di «momento formativo» per lo spettatore. I monologhi proposti da Gaber, difatti, sono caratterizzati da tematiche care alla pedagogia degli adulti e consentono all’autore di compiere riflessioni sui comportamenti, sulle manie e sulle ossessioni dell’uomo, attraverso analisi attente e, soprattutto, critiche.
Dopo l’esperienza decennale nel mondo della canzone «leggera» e della televisione, Gaber cominciò a sentire una certa inadeguatezza in quel modo di fare spettacolo al punto tale che provò pure ad inserire i primi brani socialmente impegnati (La Chiesa si rinnova,Eppure sembra un uomo) nei suoi programmi televisivi, ma, ovviamente, non riscossero lo stesso successo dei precedenti. È il 1970, periodo che segue i grandi movimenti di massa, in quasi tutti i Paesi del mondo, gruppi di operai, di studenti e di minoranze etniche avevano cercato di far vacillare governi e sistemi politici con le loro contestazioni.
Il momento storico esige meno leggerezza anche dal mondo dello spettacolo, la futilità televisiva comincia ad andare stretta ad un certo pubblico, così Gaber sente la necessità di andare oltre e proporre loro qualcosa di più «sostanzioso»; si tratta di un passaggio fondamentale che lo porta da una dimensione di intrattenimento ad un’altra di riflessione.
Lo scopo del teatro canzone è quello di portare il pubblico a conoscere meglio determinate tematiche legate alla sfera politica, sociale, sentimentale, psicologica e così via. Gaber non tralascia argomenti delicati, cari all’educazione degli adulti, come la crisi dell’individuo nella società moderna, la morte, l’abuso di potere, la vita politica del cittadino e quant’altro; temi che conducono il pubblico a provare sentimenti di rabbia, divertimento, indignazione, disapprovazione o sintonia con l’attore. Gli individui da lui raccontati sono spesso confusi, maniacali, narcisisti, credono di possedere la verità tra le mani e poi vedono crollare miseramente le loro convinzioni.
L’interesse per l’uomo, nella dimensione individuale e collettiva, nell’analisi di stati d’animo e comportamenti, è stato sempre centrale nella produzione artistica del duo. Difficile non tracciare un parallelismo con la psicoterapia, altra situazione dove dal dialogo, dalla parola, dalle domande e dalle risposte può nascere qualcosa di nuovo, in grado di incuriosire sia il paziente che il terapeuta; d’altra parte, come diceva l’illustre paziente Alda Merini (2008): «Rendere interessante un malato ai suoi stessi occhi è una cosa davvero importante, è il cominciamento della sua guarigione» (Palmieri 2013).
Gaber e Luporini, quindi, non volevano condurre gli spettatori a conquistare una certezza ma, in maniera «socratica», invitarli a porsi degli interrogativi, alimentando il dubbio, buttare lì qualcosa e lasciare il pubblico a pensarci su (Scanzi 2012)1. I due, dunque, accompagnano il pubblico verso un’analisi critica del proprio vissuto, dando vita ad un momento in cui lo spettatore può decidere se lasciarsi scorrere addosso tutte le parole ascoltate o mettere in discussione delle proprie convinzioni; magari ipotizzando un cambiamento personale, correlato ad un’apertura verso il pensiero critico (si pensi ad Heidegger, ad esempio; egli parlava di critica come di apertura originaria al senso e alla determinazione del giudizio (Fadda, 2009, 18).
Critica e giudizio (adeguato e mai arbitrario) vanno di pari passo e la ricerca non è mai accompagnata da criteri arbitrari o meramente metodologici; è proprio il processo di ricerca in sé che li produce e li mette a disposizione per le future ricerche. Il procedere critico non pretende esaustività, esso consiste nel porsi delle domande aspirando a raggiungere la verità, il senso. La critica è pura crisi, intesa come rischio, una presa di coscienza in libertà, quest’ultima intesa non come illusione di indipendenza ma come consapevolezza dei condizionamenti possibili (Fadda 2009, 19-20-21).
E allora è venuto il momento dei lunghi discorsi
ripartire da zero e occuparsi un momento di noi
affrontare la crisi, parlare, parlare e sfogarsi
e guardarsi di dentro per sapere chi sei.
E c’era l’orgoglio di capire e poi la certezza di una svolta
come se capir la crisi voglia dire che la crisi è risolta.
E allora ti torna la voglia di fare un’azione
ma ti sfugge di mano e si invischia ogni gesto che fai
la sola certezza che resta è la tua confusione,
il vantaggio di avere coscienza di quello che sei […]
E allora ci siamo sentiti insicuri e stravolti
come reduci laceri e stanchi, come inutili eroi,
con le bende perdute per strada e le fasce sui volti
già a vent’anni siam qui a raccontare ai nipoti che noi
noi buttavamo tutto in aria e c’era un senso di vittoria
come se tenesse conto del coraggio, la storia. (Gaber 1976)

lib
L’omologazione
Distinguere ciò che è culturalmente nutritivo da ciò che è indigesto è dato solo a chi percorre sentieri «alternativi» e sceglie di non adeguarsi al resto del mondo. «L’obeso» è la straordinaria allegoria della società di massa e, in questo caso, non ha niente a che vedere con il cibo reale. L’obeso si nutre di opinioni, di dibattiti, di soldi, s’ingravida anche solo osservando l’orrore che lo circonda e che entra in lui fino ad essere metabolizzato.
In fondo, per non sentire il dolore ci si deve far anestetizzare e il modo più comune per è abituarsi a sopportare, non avere punti fermi perché, comunque, sarebbero aleatori. L’abitudine è divenuta un prodotto di largo consumo, è la «normalità», motivo per cui alcuni individui, per incoscienza o spensieratezza, non si accorgono di niente e vivono benissimo comunque, perché l’ignoranza è il surrogato della felicità (Gaber 1994). L’uomo si abitua a tutto, perde la coscienza del significato profondo degli accadimenti e si trasforma in una creatura ingenua che abbocca con semplicità all’esca della conoscenza fittizia smerciata per autentica:
Tu credi a tutto e ti butti con troppa facilità perché sei un ingenuo.
Tu sei avido e vorace di conoscenza e abbocchi a tutti i mangimi.
Ma stai attento, non c’è niente che sia meno nutriente dei mangimi.
Tu sei troppo suggestionabile. Il tuo cervello aderisce subito,
come trovi una bella idea ti ci butti come su un osso.
Ma attenzione, non c’è niente che sia meno nutriente delle idee.
Le idee sono come quei legnetti bucati che nelle spiagge
si tirano ai cagnolini per farseli riportare, e tutti ci corrono dietro,
le mordono, le supacchiano, le portano in giro scodinzolando
e te le rimettono davanti tutte biascicate.
Tu viaggi troppo. Ma attenzione, non c’è niente che sia meno nutriente dei viaggi,
ti basta un paese nuovo e il cuore ti si emoziona, la testa ti gira,
un infinito si apre nuovo per te, un ridicolo piccolo infinito, e tu ci caschi dentro.
Il viaggio è la ricerca di questo nulla, di questa piccola vertigine per ingenui. (Gaber 1978)
La massa si alimenta di rifiuti spacciati per cultura, li divora con avidità, prende per oro colato le parole che sgorgano dalla bocca dei politicanti, dei personaggi televisivi e di chi ha interesse che la gente stessa smetta di ragionare. Chi non si fa domande, come noto, è meno pericoloso per la società ma è, viceversa, letale per la sopravvivenza della comunità. L’ingenuo è paragonabile ad un animale domestico, facilmente controllabile. Egli, si lascia suggestionare, si diverte e «scondinzola» col gioco del bastoncino da riportare indietro, ingurgita ed assimila qualunque cosa, scambiandola per nutrimento.
Han ridotto le spese statali senza mettere a rischio le pensioni
han discusso sul costo del denaro e han parlato spesso di nuove istituzioni.
Ma io dov’ero? Probabilmente in quel momento non c’ero
ero in vacanza o forse ero malato, chissà perché non mi hanno interpellato.
E no, perché io conto […]
Non sono un uomo medio ma, come dire, sono un individuo
non sono affatto inutile e passivo, so di esser decisivo
do il mio contributo alla democrazia.
Hanno fatto il bilancio dello Stato e si parla da un po’ di recessione
han ridotto gli orari di lavoro cercando di frenare la disoccupazione.
Hanno fatto il mercato globale che prevede uno scambio più efficace
è scoppiata la crisi nei Balcani e dicon che hanno fatto la guerra per la pace.
No, no, non dico che hanno fatto bene o hanno fatto male. Non mi permetterei mai. D’altronde sono loro che decidono e… basta distrarsi un attimo.
Sì, sì, lo so che gli assenti hanno sempre torto.
Ma non c’è stato un imbecille che ha detto che «libertà è partecipazione»?
Io sono un essere umano unico, sensibile, irripetibile
ma mi hanno detto che sono molto fragile e forse anche da ricoverare
perché sono l’unico italiano che crede ancora di contare.
(Gaber 2000)
Di tanto in tanto, qualche individuo emerge dal mucchio per far valere la sua opinione. C’è ancora qualcuno che crede di contare qualcosa, di essere decisivo, di contribuire alla democrazia, qualcuno che è convinto di non essere solo un numero o un mero prodotto della società e s’illude di poter cambiare le cose; non fosse altro per la sua incoerenza nella prassi. Il «ribelle» descritto da Gaber e Luporini agisce soltanto con le parole, non compie nulla di concreto ma rimprovera i potenti del loro operato, delle loro contraddizioni, (ad esempio: dar vita alle guerre per ottenere la pace), mentre lui, probabilmente, era assente, forse soltanto distratto; quel che è certo è che non è un individuo meno contraddittorio dei potenti contro i quali punta il dito.
E siete anche originali,
basta ascoltare qualche vostra frase
piena di nuove parole,
sempre più acculturate, sempre più disgustose
che per uno normale,
per uno di onesti sentimenti
quando ve le sente in bocca
avrebbe una gran voglia che vi saltassero i denti.
Quando è moda è moda, quando è moda è moda.
(Gaber 1978)
L’apparenza è divenuta il tratto distintivo dell’individuo medio moderno: sembra che la sola dimensione importante sia quella della forma a discapito della sostanza, sia da un punto di vista estetico che intellettuale. Infatti, anche le parole pronunciate dai governanti appaiono adornate da tanti arzigogoli e ragionamenti contorti che, però, addolciti da un tono rassicurante, fungono da esca per la massa. La leadership politica, del resto, si basa «sull’immagine, sulla personalità, sulle abilità comunicative, molto più che sulle concrete linee politiche o sui programmi» (Friedman 2002, 77).
Il popolo elettore è, oggi, meno interessato alle idee dei candidati e più al loro carisma, alla capacità comunicativa. Per la maggior parte della gente, la personalità prevale sull’aspetto ideologico, questo perché i leader della nostra epoca hanno a disposizione una tecnologia in grado di effettuare indagini demoscopiche, sondaggi telefonici o via web: sanno tutto ciò che pensa la gente in tempo reale e possono «adeguare» i loro discorsi alla «richiesta» del proprio pubblico, dando vita ad una politica artefatta, di facciata, adornata da tante parole rassicuranti e poca concretezza.
Gaber, nella già citata Io se fossi Dio, definisce i politici come «cavalcatori di ogni tigre», che cercano di entrare nella testa degli elettori per poter offrire loro un’immagine solidale, incoraggiante, da salvatori della patria, col tipico atteggiamento «opportunistico» volto alla raccolta di ulteriori consensi. Dall’altra parte abbiamo un pubblico che è convinto di sapere e di osservare tutto, che riceve una marea di informazioni, o una parvenza di esse, e diventa, a sua insaputa, schiavo della «retorica», di greca reminiscenza, utile per «adornare» le parole durante i comizi. L’informazione, a loro erogata, è distorta, filtrata, poiché tutti i governi, bene o male, celano delle verità per trarne guadagno, come accade, ad esempio, nella censura della stampa. Il governo democratico, dunque, non potendo applicare censure in maniera plateale, si plasma sui gusti della folla e asseconda i pregiudizi sociali più diffusi (Friedman 2002, 80).
Ma io se fossi Dio, non mi farei fregare da questo sgomento
e nei confronti dei politicanti sarei severo come all’inizio
perché a Dio i martiri non gli hanno fatto mai cambiar giudizio.
Io se fossi Dio, dall’alto del mio trono
vedrei che la politica è un mestiere come un altro […]
il politico […] è un uomo a tutto tondo
che senza mai guardarci dentro scivola sul mondo
che scivola sulle parole anche quando non sembra o non lo vuole
(Gaber 1980).
Il brano Io se fossi Dio creò non pochi problemi a Gaber e Luporini, poiché venne censurata dalla loro stessa casa discografica che, nel 1980, non acconsentì alla pubblicazione. Gaber dovette agire autonomamente e rivolgersi ad una piccola etichetta per favorirne la distribuzione, ma, per ovvi motivi, non venne pubblicizzata a dovere e riscosse una certa notorietà solo negli anni successivi.
Il brano suscitò un’indignazione generale, dal mondo politico a quello giornalistico, poiché nel testo vennero citati esplicitamente gli individui e i partiti responsabili della rovina del nostro paese; i due autori furono talmente crudi da non risparmiare nemmeno i politici defunti, «perché a Dio i martiri non gli hanno fatto mai cambiar giudizio» (Gaber 1980).
Eppure, bisogna riconoscere che i leader sono ancora lo specchio della maggior parte dei cittadini e viceversa. La colpa è collettiva, dunque, sono i cittadini stessi ad aver consentito di mandare tutto al macero, troppo impegnati a farsi trascinare dal vortice dei media e sottomettersi ad un presente effimero, fatto di apparenza ed uniformazione ai modelli di vita dominante.
La questione legata al tema della «divergenza-uguaglianza» ci riporta al pensiero di Nietzsche, il quale afferma che la disuguaglianza tra gli uomini è una potente affermazione dell’esistenza individuale e della scelta personale e che «gli uomini non devono neppure essere eguali!» (Nietzsche 1980). L’uomo quindi non può essere uguale all’altro ma, soprattutto, non deve esserlo, perché la differenza-uguaglianza è il presupposto del percorso che conduce alla scoperta di sé; è nell’ineguaglianza tra sé e gli altri che l’individuo pone le fondamenta per il proprio avvenire, si mette in discussione e si ricrea continuamente.
È fondamentale, a tal proposito, che il concetto di differenza preluda a quello di alterità e che il soggetto riconosca nella relazione con l’altro (diverso da sé), la sua unicità, così da sviluppare la capacità di valorizzarla, accettando le differenze (e unicità) altrui. Il messaggio di Nietzsche è molto attuale ed è assolutamente riconducibile alla nostra epoca che, spesso, preferisce andare in direzione opposta.
Oggi, come già detto, da un lato, si pensa che individuo e individualità debbano confluire nell’individualismo autoreferenziale e a-formativo, che genera la chiusura totale verso l’altro e verso il quieto vivere tra uomini. D’altro canto bisogna ripensare il significato dell’omologazione, dove trovano posto l’annullamento e la limitazione delle differenze proprie della natura umana.
Il concetto di omologazione veicola l’espansione di un solo modello valido cui conformarsi e fa decadere la possibilità che sia prevista, al contrario, una varietà di modelli o tipi e di possibili esistenze individuali (Cocco 2007, 115). Al contrario, tutt’ora è diffusa una visione distorta del concetto di «differenza», questo è divenuto, purtroppo, il pretesto per ogni tipo di scontro ed ha gradualmente smarrito il suo tratto distintivo di elemento che fonda il rapporto con l’alterità.
Non è semplice trovare l’autenticità nell’essere umano in un’epoca che predilige l’apparenza e l’adeguamento perché «anche in certi gesti che sembran solidali non c’è più un individuo siamo ormai tutti uguali» (Gaber 2001, Verso il terzo millennio).
Il discorso politico
C’è un fatto: che su un certo tipo di denuncia si è abbastanza tutti d’accordo. È quando tu dici il perché di certi problemi che il discorso diventa politico e allora possono accusarti di superficialità. Ma non penso sia un’accusa giusta. La concisione non è superficialità. Devo dire però che in generale i giornali hanno parlato bene dello spettacolo, anche quelli che hanno espresso delle riserve sulla parte «politica». Ma qual è poi la parte «politica»? Ogni discorso è politico, anche un discorso sull’amore lo è. (Vaime 2004, 31).
Il teatro di Gaber è sempre più un luogo d’incontro, un ambiente formativo, un momento in cui il monologo diventa uno strumento per comunicare e trasmettere dei concetti (oltre la mera divulgazione), sollecitando nello spettatore una presa di posizione critica. Ovviamente, non c’è un dialogo diretto con il protagonista, ma il confronto e la discussione tra gli spettatori stessi, sicuramente, è un input per pensare in modo critico sulle questioni sociali ed individuali.
Così, l’attore, come «educatore», cerca di sviluppare uno stile interrogante senza apparire mai soddisfatto delle risposte trovate e, quindi, tenta di sollecitare i suoi spettatori (discenti) a compiere ulteriori analisi. Ad esempio, Aristotele nella Politica parla dell’essere umano definendolo il “solo tra gli animali, che ha la parola” e non solo per esprimere le proprie emozioni e i propri sentimenti ma anche per pronunciarsi su ciò che è bene o ciò che è male (Aristotele 2007, Politica, Libro I, 1253A). L’individuo diventa un essere politico proprio grazie all’uso del linguaggio; egli agisce usando la parola, pronunciandola pubblicamente e nutrendola con il pensiero.
Il discorso politico è una forma particolare di interazione sociale, basata sulla persuasione, che prevede l’uso di un linguaggio tale da essere in grado di convincere l’ascoltatore. Come ogni messaggio verbale, esso è composto da una sequenza di enunciati e può essere compreso solamente nella sua globalità, in funzione delle relazioni che lo generano e del contesto in cui viene espresso; vi è dunque una forte correlazione tra tipologia di linguaggio ed efficacia del discorso politico. Altro elemento di rilievo è l’ideologia, la quale ricopre un ruolo cardine, organizzando i concetti politici e dando loro un ordine preciso. Il discorso ha, quindi, lo scopo di determinare delle azioni conseguenti, assegnando ai diversi soggetti il compito della costruzione del mondo esterno.
Pronunciare discorsi significa, dunque, alimentare la parola con l’attività del pensare, l’educazione, in questo senso, serve a sviluppare nel discente una forma di resistenza all’indottrinamento che gli consenta di trovarsi nelle condizioni di riflettere criticamente senza omologarsi alle opinioni più accreditate. Il dialogo, accostato al confronto, è un qualcosa che supera la mera conversazione e diviene un incontro di soggettività che dona libertà ai cittadini stessi.
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L’alibi del «non so»
Gaber e Luporini, nel 1974, realizzano Dialogo tra un impegnato e un non so, spettacolo che offre una riflessione più organica sulla vita, proiettata verso l’esterno, verso quegli uomini che si rivelano incapaci di mettersi al servizio delle ideologie, delle idee ambiziose e delle utopie. Viene messo in scena un confronto tra la figura del cittadino politicamente schierato, ideologico, molto coerente (l’impegnato) e quello intellettuale (il «non so») che invece dubita, è tormentato, combattuto, non sa prendere una posizione netta ma cerca di far proprie le idee rinnovatrici:
Il «non so» si sente sicuro di se stesso, convinto che basti guardare quel che fanno gli altri per capire come sia vana la loro affannosa mania di lotta; indossare i panni attentamente trasandati dell’impegnato senza dubbi e senza contraddizioni, quello che passa la vita a progettare la rivoluzione e finisce per credere che la rivoluzione sia un mito astratto da applicare ad ogni azione umana per giudicarla, giustificarla, contestarla, sostituirla, benedirla o mandarla a farsi benedire. (Arruga 1972)
Lo spettacolo si evolve, perciò, con l’alternanza delle voci dei due interlocutori. Il loro colloquiare ha una triplice valenza poiché coinvolge, innanzitutto, i personaggi, l’attore (Gaber), che è l’osservatore delle due realtà, ed infine lo spettatore (che viene gradualmente condotto al dialogo interiore). Inizialmente, spicca il confronto serrato tra i dialoganti, che motivano i loro punti di vista senza risparmiarsi delle critiche reciproche. In seguito, l’attore espone un’analisi critica della società, delineando il disagio dell’individuo che si sente sempre più uno strumento dentro ad un meccanismo spersonalizzante; ecco che Gaber «agisce» con il suo monologo, esterna il bisogno di criticare il conformismo politico, indipendentemente dal tipo di schieramento, senza dare giudizi superficiali sprovvisti di riflessione critica. Ad un certo punto il «non so» mette in rilievo le sue angosce, le sue problematiche, sostenendo che il doversi «già» preoccupare per la sua famiglia, per il suo lavoro e quant’altro. La mole di impegni gli impedisce di occuparsi delle problematiche esterne, non tanto perché gli manchi il coraggio di protestare o lo spirito di volontà ma perché, ormai, è dentro l’ingranaggio:
Anch’io, devo andare sempre avanti, senza smettere un momento
devo andare sempre avanti e lavorare, lavorare, lavorare
e continuare a lavorare, lavorare, lavorare e non fermarsi mai!
Non è che mi manchi la voglia o mi manchi il coraggio
è che ormai son dentro nell’ingranaggio.
(Gaber 1972, L’ingranaggio, 2ª parte).
L’impegnato, dopo aver udito tali parole, sdegnato, lo riprende:
Ma non ha mai pensato che la tua oppressione è un po’ meno pesante di quella di tanti altri? Non sai che c’è gente che deve pensare a mangiare, continuamente, con assillo? […] sei malato come tutti gli «intellettualini» che soffrono tanto per il loro foruncoli e non si accorgono dei pericoli veri che ci circondano: repressione, persuasione occulta, fascistizzazione, pericoli enormi, incombenti, subdoli, misteriosi.
(Gaber 1972, Dialogo II)
Questa frase suona come una sorta di voce della coscienza, un modo per inculcare il senso di colpa verso chi non sceglie o finge di non vedere ciò che accade, rifugiandosi nell’alibi delle proprie vicende personali.
Il senso del discorso confluisce nel monologo Dialogo II in cui viene messa in evidenza la responsabilità del cittadino nella vita politica. Egli è sempre pronto a lamentarsi dell’operato dei suoi governanti ma meno attento nell’osservare, nell’informarsi e riconoscere le facce dei medesimi «prima» dell’ascesa al potere. Gaber mette dunque in evidenza che noi siamo quello che scegliamo e che i politici sono lo specchio dei propri elettori:
Avvolti in lucidi mantelli guanti di pelle, sciarpa nera
hanno le facce mascherate le scarpe a punta lucidate […]
e l’Italia rideva e cantava.
Han circondato la città la stan guardando da lontano […]
Ora si tolgono i mantelli son già sicuri di aver vinto
anche le maschere van giù ormai non ne han bisogno più
son già seduti in Parlamento.
E l’Italia giocava alle carte e parlava di calcio nei bar…
(Gaber 1972, La presa del potere)
Colui che finge di non vedere, e vive nell’ignoranza, offre spazio a quegli esseri oscuri e mascherati che si fanno strada progressivamente fino ad impossessarsi del Parlamento e farne ciò che vogliono; intanto, i cittadini sono troppo coinvolti dai discorsi calcistici e dalle frivolezze da bar. La politica, spesso, diventa un potere senza limiti, senza interlocutori, senza possibilità di confronto. Agire per discorsi significa problematizzare il presente, disattivare l’attaccamento alle proprie idee (senza prediligere quelle più diffuse), raccontare gli eventi rendendoli più fruibili per poi raffrontarli alle proprie esperienze e far nascere nuove realtà. L’obiettivo è, in sintesi, creare qualcosa di diverso e nuovo che metta in movimento i meccanismi della politica. La natalità, qui intesa come novità, diviene categoria fondativa del pensiero politico (Arendt 1989, 8), poiché ciascuno, già dal momento della nascita, introduce un elemento imprevisto nel mondo. Gaber, in questo senso, esorta a creare un «uomo nuovo» a levarsi la benda dagli occhi, che c’impedisce di vedere le cose per ciò che sono, metafora della pigrizia umana, nutrita dall’alibi del «non avere tempo». Non a caso, il dialogo si conclude con l’evocazione dell’apocalisse, del mito sovversivo della generazione, con gli operai inferociti e mossi da una forza tremenda, assolutamente intenzionati a rovesciare quel mondo orribile, alimentato dal disinteresse collettivo e dalla comodità del voltare lo sguardo:
Come va? Benissimo, grazie.
Sono stato anche dal medico che mi ha trovato perfettamente a posto:
nevrosi acuta, condizionamento totale, visione delle cose zero… normale insomma.
Eppure da un po’ di tempo mi sembra che questa benda non funzioni tanto bene.
Strano è nuova nuova.
Poi adesso le fanno così belline, colorate, di vari tessuti, di varie forme.
Oh Dio, niente a che vedere con le bende di prima della guerra eh?
Intanto erano nere… oscurità totale,
poi altre bende, altri spessori… certe partite a moscacieca!
Insomma da un po’ di tempo mi sembra che questa benda
lasci intravedere degli oggetti, delle facce, intuire dei movimenti.
Mah, sono un po’ «preoccupatino».
(Gaber 1972, La benda)
Saper pensare da sé chiarifica la necessità di non voler essere governati dalla volontà altrui e di voler prendere delle vie alternative, sulle quali non si possa essere rintracciati con facilità; fare politica si identifica, perciò, nel dare vita qualcosa di nuovo, attraverso il discorso e l’azione. Anche i contesti educativi «dovrebbero» essere ambienti discorsivi, di confronto con l’altro, luoghi in cui il nostro pensiero si possa nutrire di quello altrui. Il contesto educativo, in tal modo, si potrebbe identificare come una comunità di discorso, un laboratorio di pensiero, finalizzato all’acquisizione della capacità di pensare collettivamente le questioni riguardanti la sfera sociale e quella politica (Mortari 2008, 28-30).
Direi che in questi ultimi anni fra l’impegnato e il «non so» ha vinto il «non so». Il «non so» è diventata una condizione umana molto diffusa, credo che molti siano dei «non so». Per cui ultimamente succede una cosa che una volta non accadeva: una volta io sapevo perché la gente veniva a teatro, più o meno individuavo un pubblico che alla fine degli spettacoli usciva pieno di dubbi, diviso, con posizioni a favore, però con una voglia di «discutere» i temi dello spettacolo, a favore, pro, contro, eccetera eccetera. Adesso io non conosco il pubblico che viene a vedere i miei spettacoli, so che viene ‒ perché effettivamente i teatri sono pieni – però non so bene che tipo di pubblico venga. So che alla fine invece di essere diviso il pubblico è molto unito e quindi si è venuta a capovolgere la situazione. Evidentemente i «non so» hanno vinto. (Mollica 2000)
La partecipazione
La politica dovrebbe essere considerata una pratica volta a realizzare gli obiettivi che si spera di raggiungere e non un’esclusiva proprietà degli esperti, in quanto ogni questione politica ricade su tutti i cittadini. Hannah Arendt (come poi farà Gaber, dal suo punto di vista di artista) rimarca il bisogno di adottare un atteggiamento di diffidenza nei confronti degli «esperti della politica» e individua il loro punto debole nella pretesa di voler affrontare scientificamente le questioni politiche (Mortari 2008, 6).
Come l’uomo più evoluto che si innalza con la propria intelligenza
e che sfida la natura con la forza incontrastata della scienza
con addosso l’entusiasmo di spaziare senza limiti nel cosmo
e convinto che la forza del pensiero sia la sola libertà.
(Gaber 1973, La libertà)
Come veniva evidenziato anche nell’antica Grecia, nessuna comunità può esistere se i suoi componenti non ne delineano le caratteristiche partecipando alla vita collettiva; la pratica politica (così come la partecipazione) è di fondamentale importanza in quanto dona un senso alla vita degli individui.
Come un uomo che ha bisogno di spaziare con la propria fantasia
e che trova questo spazio solamente nella sua democrazia.
Che ha il diritto di votare e che passa la sua vita a delegare
e nel farsi comandare ha trovato la sua nuova libertà.
(Gaber 1973, La libertà)
Essere liberi, in sintesi, non coincide col delegare la politica ai tecnici, ma, viceversa, fare in modo che si crei una responsabilità condivisa da tutti i componenti della comunità. La politica è una necessità inalienabile per l’esistenza umana in quanto l’uomo dipende, nell’arco della sua esistenza, da altre persone, ragion per cui deve esistere una cura esistenziale che riguardi tutti; la politica deve tutelare la vita nel senso più ampio del termine (Arendt 1995, 9).
Detto ciò, possiamo intuire che l’educazione del cittadino consiste anche nel predisporre contesti di apprendimento in cui le persone possano mettere in pratica delle tecniche volte a rapportarsi con gli altri e con se stesso, così da costruire lo spazio della politica.
La libertà non è star sopra un albero,
non è neanche avere un’opinione
la libertà non è uno spazio libero,
libertà è partecipazione.
(Gaber 1973, La libertà)
La vera partecipazione tra i cittadini si ha quando viene loro offerta la possibilità di intervenire «attivamente» in tutte le attività diffuse nei luoghi della vita urbana. Fin dall’infanzia, è fondamentale educare le persone alla partecipazione mediante il coinvolgimento, senza la pretesa di far loro assumere delle responsabilità troppo pesanti. Alcuni considerano il coinvolgimento dei bambini come inopportuno, in quanto solo gli adulti dovrebbero confrontarsi attivamente con la costruzione di un buon ambiente di vita. È ancora troppo diffusa la concezione secondo la quale l’apprendimento è legato ad un approccio intellettualistico e si trascura l’importanza di organizzare contesti attivi di apprendimento, tesi a valorizzare l’approccio esperienziale (Mortari 2008, 57).
Il coinvolgimento dei bambini deve altalenarsi tra due versanti: da un lato, quello ludico che aiuta il bambino a non percepire l’attività in maniera troppo impegnativa e dall’altro la possibilità di poter intervenire attivamente sui processi, affinché la dimensione del gioco non sia fine a se stessa. La promozione della partecipazione nell’infanzia è possibile se l’adulto riesce ad assumere il ruolo di facilitatore, ossia, «colui che predispone tutti i dispositivi necessari a organizzare l’azione relativamente ai livelli progettuali e operativi non accessibili ai bambini» (Mortari 2008, 60), ad esempio: porre le domande, sollevare dubbi, stimolare la curiosità ad esplorare e condizionare lo spazio dialogico della comunità. I bambini vengono così, gradualmente, introdotti nel mondo comunitario, un luogo in cui i cittadini possano essere disposti al confronto, alla condivisione dei valori, al dialogo, alla creazione di qualcosa di nuovo che sia idea e pratica, forma e sostanza; «per abitare i luoghi non basta quindi solo “l’esserci”, ma occorre anche “l’operare”» (Fabbri 2008, 116)
Un’idea, un concetto, un’idea
finché resta un’idea è soltanto un’astrazione
se potessi mangiare un’idea
avrei fatto la mia rivoluzione.
(Gaber 1972, Un’idea)
L’idea che rimane tale è inconsistente, fine a se stessa, non conosce evoluzione, si limita ad essere un’intuizione che però non raggiunge alcuno sviluppo pratico e non dà luogo ad una «concreta» rivoluzione culturale o di pensiero. La cittadinanza deve essere «attiva», proprio perché legata alla cultura, fonte di energia per le motivazioni e le aspettative che suscita. L’uomo, attraverso la cultura, va oltre la fattualità e l’immediatezza del presente, si apre al mondo e diviene capace di proiettarsi in un orizzonte di possibilità che, altrimenti, non avrebbe.
Queste osservazioni, seppure estrapolate da un contesto pedagogico, sposano il messaggio che Gaber lancia nella sua riflessione: nessun cittadino può essere realmente libero se confina la propria esistenza al suo microcosmo personale. Il vero dilemma è che si vive nell’illusione di partecipare, senza comprendere la solitudine che ci circonda. Intanto, la democrazia, sempre più infangata, svanisce nel suo processo di decomposizione e il mondo occidentale, nel momento in cui crede di vincere nettamente, al contrario, si disintegra.
Ovviamente, la partecipazione mostra anche dei limiti. Spesso il coinvolgimento dei cittadini è dato dalla necessità di risolvere un problema circoscritto e,in quel caso specifico, lo spirito di partecipazione è mosso dalla ricerca di una soluzione che riporti ad una condizione di benessere; in sintesi, spesso, solo in presenza di situazioni di forte impatto emotivo si hanno ampie insurrezioni da parte dei cittadini. Il coinvolgimento diminuisce quando la cultura della partecipazione non è diffusa, la partecipazione aumenta tra le fasce di popolazione più istruite e decresce laddove troviamo gruppi meno istruiti o con status sociale più basso (Fazzi 2008, 158).
Talvolta, la partecipazione è data dalla necessità di costruire il consenso e quindi appianare le divergenze d’opinione, assumendo il ruolo di mediatrice. La questione dell’uguaglianza, affrontata precedentemente, ritorna anche in questo ambito, rivelandosi, spesso, un ostacolo. La qualità delle decisioni, infatti, viene alterata dal fatto che l’opportunità di far parlare tutti, anche i più incompetenti, si traduce nell’impossibilità di porre in discussione determinate convinzioni e, limitatamente, si ricercano compromessi in grado di soddisfare entrambe le parti; questo conduce ad optare per decisioni permeate dal consenso popolare che si mostrano, allo stesso tempo, meno efficaci.
Utilizzare la partecipazione per risolvere le differenze non conduce necessariamente a trovare soluzioni efficaci, così come dare potere decisionale ad un maggior numero di attori dalle competenze asimmetriche, paradossalmente, può diventare pericoloso per la stessa democrazia. Per migliorare la qualità di quest’ultima, non è sufficiente essere in tanti (o troppi), quel che conta sono i contenuti e le competenze che, nell’attuale società, sono spesso apprese dai media piuttosto che in funzione di considerazioni razionali (Fazzi 2008, 160).
Conformismo e libertà di pensiero

Il conformista è uno che di solito sta sempre dalla parte giusta,
il conformista ha tutte le risposte belle chiare dentro la sua testa
è un concentrato di opinioni che tiene sotto il braccio due o tre quotidiani
e quando ha voglia di pensare pensa per sentito dire
forse da buon opportunista si adegua senza farci caso e vive nel suo paradiso. (Gaber 1996, Il conformista)
Il risveglio delle coscienze è certamente un processo innovatore, rivoluzionario, allettante, ma, nonostante tutto, sembra essere ancora lontano. Le contraddizioni della sfera sociale sono sempre più lampanti e l’appiattimento dell’individuo nel conformismo è fin troppo evidente.
Il conformista è colui che si esalta perché, facendo parte della maggioranza, sa di stare dalla «parte giusta», egli pensa «per sentito dire» e fa di questo una sua profonda convinzione, si lascia gonfiare dall’informazione deviata dei quotidiani o dei telegiornali e per questo crede, illusoriamente, di avere un’opinione. Egli è convinto di essere un cittadino libero solo perché, semplicemente, segue il suo istinto e fa ciò che vuole, prediligendo la soluzione più agevole. A questo punto, Gaber e Luporini evidenziano la labilità del confine tra libero pensiero e conformismo:
Il conformista è un uomo a tutto tondo che si muove senza consistenza,
il conformista s’allena a scivolare dentro il mare della maggioranza
è un animale assai comune che vive di parole da conversazione
di notte sogna e vengon fuori i sogni di altri sognatori
il giorno esplode la sua festa
che è stare in pace con il mondo e farsi largo galleggiando […]
Il conformista, aerostato evoluto che è gonfiato dall’informazione
è il risultato di una specie che vola sempre a bassa quota in superficie
poi sfiora il mondo con un dito e si sente realizzato
vive e questo già gli basta
e devo dire che oramai somiglia molto a tutti noi, il conformista.
(Gaber 1996, Il conformista)
I due, riprendono più volte il concetto di libertà durante gli spettacoli teatrali, ma questo non viene contrapposto a quello di schiavitù, come fosse l’altra faccia della medaglia, viceversa, lo accostano ad esso e la medaglia stessa sembra possedere una sola ed unica faccia: la libertà di essere schiavi. Ci troviamo davanti ad una parvenza di emancipazione, ad una libertà artefatta che può trasformarsi in un capriccio: essere liberi di fare tutto ciò che si vuole, ossia, un’illusione di indipendenza. Così facendo, il cittadino diventa schiavo dei propri desideri, del proprio credo, delle proprie ostentazioni.
Si può, fare critiche dall’esterno, si può
non far uso dei congiuntivi,
si può siamo liberi e trasgressivi, si può […]
Con quella vena di razza italiana che è vivace e battagliera
è naturale che poi siamo noi che possiam cambiar tutto
a patto che si lasci tutto come era […]
Si può, siamo noi che facciam la storia, si può,
libertà, libertà, libertà, libertà obbligatoria […]
sono infedele, sono matto, posso far tutto […]
si può far la guerra per scopi giusti, si può, siamo autentici pacifisti, si può.
Per ogni assillo, rovello sociale, sembra che la gente goda
tutti che dicono la loro, facciamo un bel coro di opinioni
fino a quando il fatto non è più di moda […]
Ma come? Con tutte le libertà che avete, volete anche la libertà di pensare?
(Gaber 1992, Si può)
Gaber concepisce come «sano» l’atteggiamento di chi cerca di disfarsi delle proprie oppressioni e impiega tutte le proprie energie nella lotta per la vera libertà. Gaber sostiene che quel che nuoce gravemente all’individuo non è la lotta per ricercare la libertà ma la libertà in sé. Questa tematica viene ulteriormente approfondita nello spettacolo Libertà obbligatoria, in cui si propongono nuovi spunti nei quali il pubblico è destinato a rispecchiarsi; si parla della fine degli entusiasmi, delle grandi utopie e dei tempi che stanno, inesorabilmente, cambiando.
Gaber e Luporini percepiscono cedimenti allarmanti e contrasti sempre più palesi nella società. I distacchi e le divergenze di pensiero divengono sempre più opprimenti, si avverte il crollo delle certezze ideologiche e politiche, delle credenze religiose e spirituali, tutto appare più fragile perché il primo ad esserlo è proprio l’individuo.
Il discorso si apre con feroci atti d’accusa verso l’americanizzazione della società, passando per i comportamenti massificati e giungendo alla costrizione, spesso inconsapevole, a cui gli individui continuano a sottostare. Essi assumono atteggiamenti talmente liberi, da essere banali, guidati, condizionati, come tante catene di anelli identici; ecco cos’è la libertà obbligatoria, quella che, senza farti accorgere, ti impedisce di scegliere realmente (Madera 1976).
Non ho mai visto qualcosa che sgretola l’individuo come quella libertà lì.
Nemmeno una malattia ti mangia cosi bene dal di dentro.
Te la mettono lì la libertà è alla portata di tutti, come la chitarra.
Ognuno suona come vuole e tutti suonano come vuole la libertà
(Gaber 1976, L’America)
Gaber parla di un uomo che, in questa epoca, è contaminato dai suoi assassini interiori, spesso peggiori di quelli che stanno fuori, riconoscibili, quelli che sparano nelle strade, quelli che in qualche modo puoi combattere, magari «prevedibili anche nella cattiveria», quelli che stanno dentro, invece, sono come un’iniezione perpetua, incontrollabile. La libertà è diventata un oggetto alla portata di tutti e Gaber la paragona ad una chitarra; ognuno la suona come meglio crede e tutti, divenuti schiavi, suonano «come vuole la libertà» (Gaber 1976, L’America).
La legge in un paese alla deriva fa sì che la giustizia sia un po’ riflessiva
e se vuoi far valere le tue ragioni dovrai aspettare due o tre generazioni
e nei tribunali in archivi segreti c’è la storia d’Italia di tutti i partiti
e siccome nessuno è senza peccato si può ricattare tutto lo Stato. (Gaber 1999, La legge)
Riprendendo il concetto di uguaglianza, è opportuno comprendere che è sempre meglio non equipararlo erroneamente a quello, spersonalizzante, di uniformità. Essere tutti uguali è un concetto che, talvolta, può diventare eccessivo, quasi una forzatura legata al timore della diversità, all’eccesso di prudenza. Essere «tutti uguali» è un concetto che va in conflitto con quello di unicità dell’individuo, il quale necessita di questo riconoscimento perché possa ricevere un autentico rapporto di cura. Come sostiene Tommaso Landolfi nel suo Rien va: «La democrazia ha tutto l’aspetto d’un insidioso ripiego, non vi è nulla di più ingiusto che dire “questo è uguale per tutti”» (Landolfi 1963); del resto, quella di cui parla Gaber è una sorta di «uguaglianza a tutti i costi» che, paradossalmente, finisce per essere meno democratica di quanto si possa pensare.
Se ci fosse un uomo generoso e forte,
forte nel gestire ciò che ha intorno senza intaccare il suo equilibrio interno
forte nell’odiare l’arroganza di chi esibisce una falsa coscienza
forte nel custodire con impegno la parte più viva del suo sogno […]
Questo nostro mondo ormai è impazzito e diventa sempre più volgare
popolato da un assurdo mito che è il potere.
Questo nostro mondo è avido e incapace sempre in corsa e sempre più infelice
popolato da un bisogno estremo e da una smania vuota che sarebbe vita […]
(Gaber 2000, Se ci fosse un uomo)
Il brano Se ci fosse un uomo che conclude, non a caso, il suo ultimo disco, racconta il ritorno dell’essere umano al centro della vita. Gaber auspica l’esistenza di un individuo che possa vivere nella generosità e che sia in grado di prendere le distanze dall’arroganza della «falsa coscienza». Egli sostiene che solo eliminando l’avidità e il mito del potere si possa giungere realmente ad un nuovo Umanesimo che veda ancora l’uomo come «centro della vita».
Allora si potrebbe immaginare un umanesimo nuovo
con la speranza di veder morire questo nostro medioevo
(Gaber 2000, Se ci fosse un uomo)
Riferimenti bibliografici
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Sitografia
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Gaber G. (1976), Libertà obbligatoria, Carosello, Milano.
Gaber G. (1978), Polli d’allevamento, Carosello, Milano.
Gaber G. (1980), Io se fossi Dio, F1 Team, Milano.
Gaber G. (1992), Il teatro canzone, Carosello, Milano.
Gaber G. (1994), E pensare che c’era il pensiero, Giom, Milano.
Gaber G. (1996), Gaber 96/97, Giom, Milano.
Gaber G. (1999), Gaber 98/99. Un’idiozia conquistata a fatica, Giom, Milano.
Gaber G. (2000), Gaber 1999/2000. Un’idiozia conquistata a fatica, Giom, Milano.
Gaber G. (2001), La mia generazione ha perso, Warner, Milano.
Note

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